Qui si parla di etichette, di ruoli e di identità personale

  • “Ciao””
  • “Che lavoro fai?”
  • “Quanti anni hai?”
  • “Sei sposata?”
  • “Hai figli?”

Penso che a tutti capiti neanche troppo raramente, di incappare in questa serie di domande (più o meno modificata al bisogno) all’inizio di una conoscenza, sia che ci siano rivolte oppure che siamo noi a porgerle. Sono domande ritenute innocue e neutrali,  giusto per  iniziare a conoscere la persona che ci sta di fronte e sopratutto a inquadrarla.

Uhm.

Attenzione però che quando rispondiamo a queste domande veniamo automaticamente catalogati  (e viceversa) in base al nostro interlocutore. Ecco perché si parla dell’importanza di fare una buona prima impressione: veniamo spesso etichettati nei primissimi minuti di conoscenza, e spesso questa etichetta ci resta incollata addosso e può essere poi difficile venirne fuori. Per giunta, come accennavo prima, le risposte sono filtrate dall’interlocutore, dal suo modo di pensare, dalla sue esperienza, talvolta dall’età a volte persino dall’umore.

Prendiamo la prima domanda. Metti di rispondere  alla domanda che lavoro fai con: “Sono casalinga”

Le reazioni potranno essere queste, ad esempio, a seconda di chi ci troviamo davanti:

  •  Donna/uomo lavoro-dipendenti: “un’altra che non fa niente dalla mattina alla sera”
  • Altra casalinga: “quanto ti capisco!”
  • Attivista per le pari opportunità: “ma ne esistono ancora? Un’altra vittima del sistema”
  • Uomo ageé e nostalgico “Ah, ma allora esistono ancora questi angeli del focolare…”

Oppure se rispondi alla seconda domanda che sei sposata, se di fronte a te c’è…

  • una donna single non per scelta  penserà: “beata te!”
  • una donna single per scelta : “poverina, ma chi gliel’ha fatto fare!!….”
  • un uomo marpione sposato “alè! ci posso provare senza rischiare nulla”
  • un uomo single in cerca dell’anima gemella: “peccato <era> carina….”

ovviamente questi sono casi limiti e aderenti a mooolti stereotipi.

L’esempio mi serve solo per far notare come spesso noi siamo inquadrati dalle persone in base ai ruoli che noi ricopriamo e spesso purtroppo conditi pure da stereotipi e filtrati dalla percezione dell’altro.

Intendiamoci, i ruoli servono e sono utili a scandire le nostre occupazioni.  Il problema, per noi e per la nostra felicità è come noi stessi intendiamo e viviamo questi ruoli.

Se gli estranei ci leggono in base al loro modo di pensare, alle loro esperienze, come ci vediamo noi?

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Prendiamo ad esempio il lavoro.

Spesso veniamo valutati  e addirittura identificati con il lavoro che facciamo, ma a prescindere dal giudizio altrui, come ci percepiamo noi?  

Se amiamo il lavoro che facciamo, non ci importa, anzi può essere persino gratificante (essere il mega  presidente dei monopoli mondiali riuniti può sicuramente fare un certo effetto).  Ma se, al contrario, non amiamo il nostro lavoro, se lo percepiamo come un peso,  se non lo troviamo soddisfacente o in  linea con i nostri valori, o se non abbiamo un lavoro, essere identificati con cosa facciamo può essere molto pesante. 

Iniziamo allora a non cadere noi in questo tranello. Ricordiamoci:

Noi svolgiamo un lavoro,

ma noi NON siamo il nostro lavoro!

Ripetiamolo spesso, finché diventa un concetto che sentiamo nostro, anche a livello emozionale.turkey-Fotor

E’ un esercizio molto utile, questo! Anche e forse soprattutto per il mega presidente dei monopoli mondiali riuniti, che magari può smettere di girare attorno come un tacchino tronfio e recpurare un po’ di autenticità! 😀

Separare chi sono da ciò che faccio  è un primo passo importante  (e non solo per quanto riguarda il lavoro!) che consente:

  • di osservare la situazione  da una diversa angolazione:
  • di poter chiarire a noi stessi che cosa vogliamo davvero, dove siamo e dove vogliamo arrivare?
  • di trovare nuovi modi di affrontare il problema, che sia cambiare o restare.

Come sempre non esistono bacchette magiche, ma tanti piccoli passi che possono fare la differenza. Pensate alla vostra situazione lavorativa (e poi magari analizzate anche vostri ruoli):

  • Vi trovate o vi siete trovati a identificarvi con il vostro lavoro/ruolo?
  • Come vi sentite in merito?
  • Dopo aver provato  l’esercizio, percepite dei cambiamenti?

Come sempre vi invito a condividere nei commenti le vostre impressioni e, se volete approfondire qualche punto,  scrivetemi un ‘email 🙂

Vi aspetto con gioia!

Elena

labottegafelicitacounseling@outolook.it

Accettazione o Rassegnazione? Se si tratta di scegliere…

La vita è difficile.

Ehi, che notiziona! Si doveva proprio leggerlo, per scoprirlo… 😎

Di problemi ce n’è davvero per tutti.

A volte sono situazioni “esterne”, su cui abbiamo poco margine di intervento: una malattia, nostra o di un nostro caro, un lutto, un licenziamento… 

In molti altri casi invece si tratta di problemi che  magari hanno origine da un evento esterno, ma che sono poi ingigantiti dal nostro modo di pensare: “mi ha lasciato perché non valgo niente” “Non sono mai capace di combinare qualcosa di utile” “ Non troverò mai un compagno perchè sono troppo  bella/brutta/magra/grassa/scema/intelligente…” (eh sì, siamo davvero abili a complicarci l’esistenza).

E può capitare che, quando ci stiamo crogiolando tranquilli nel nostro mare di m… ehm, di molti problemi, pensando che la vita è uno schifo, che noi siamo terribili, che non se verrà mai fuori, che niente cambierà mai (a ciascuno la sua lamentela preferita), arriva lo pseudo guru di turno a dirci che dobbiamo “accettare”.

Col cavolo, viene da dire, o per lo meno è quello che è venuto in mente a me  quando, per la prima volta, mi è stato proposto di “accettare”. Ma come, ho pensato, sono arrivata a questo punto per cambiare le cose, per migliorare la mia vita, per migliorare me stessa e mi si sta dicendo che devo accettare??? Scherziamo?? Per me è stato un concetto davvero difficile da digerire. Anche perché mi sono scontrata con un mio pensiero un po’ distorto, ovvero che accettazione fosse in definitiva un sinonimo di rassegnazione. Concetto che mi ha sempre infastidito parecchio, forse perché hanno cercato in molti di inculcarmelo in mente, ma è uno stile di vita che non mi è mai appartenuto.

E’ solo quando ho capito che si tratta di due concetti ben diversi che ho iniziato a considerare l’idea di accettazione (della vita e dei suoi problemi, ma soprattutto di me stessa) come un inizio per creare quel miglioramento che andavo cercando.

Che siano due concetti diversi si comprende già dal loro dal significato intrinseco:

Rassegnazione è (e qui copio dal dizionario): “Accettazione della volontà altrui anche se contraria alla propria; disposizione dell’animo ad accogliere senza reagire fatti che appaiono inevitabili, indipendenti dal proprio volere: soffrire, patire con santa, eroica rassegnazione;(AMEN – n,d,a))

o ancora: 

“la disposizione, considerata virtuosa, di chi si adegua consapevolmente a uno stato di dolore o di sventura”.

Penso che sia sufficiente la definizione per capire che NON è certo questo che vogliamo per noi e per la nostra vita, (nonostante a una parte della nostra cultura piacerebbe moltissimo una massa di rassegnati)!

E, a dispetto di quanto recita il dizionario, non sempre la rassegnazione è virtuosa (scusate, mio parere personale).

Accettazione, invece, vuol dire “prendere in carico”: è una azione-attiva. 

woman-2944070_640Certo, la rassegnazione ha in sé una componente di accettazione, ed è vero anche il contrario: accettare  vuol anche dire smettere di combattere: contro i nostri difetti, contro le circostanze, le situazioni, i pensieri.  Vuol dire arrendersi, ma è una resa che presuppone anche la volontà di lasciar andare, con gentilezza, con amore, con compassione, per trovare nuovi modi di affrontare le cose, o, se necessario, nuove strade da percorrere.

Accettare è anche smettere di evitare di affrontare le cose che non ci piacciono, di noi, o della nostra vita.

Accettare è un punto di partenza.

Rassegnarsi è un punto di chiusura (non c’è niente che possa fare). A volte è anche una scusa: la frase “che vuoi farci, sono fatto così” vi è familiare? Questa frase non è sintomo di accettazione- attiva! Anche per questo accettare è un primo passo importante per la nostra crescita.

E per capirne il perché, mi avvalgo di una frase di Jodorowsky:

“La cosa importante è accettare se stessi. Se la condizione in cui mi trovo è causa di malessere, è segno che la rifiuto. Allora, più o meno coscientemente, tento di essere diverso da come sono; in definitiva non sono io. Se, al contrario, accetto pienamente il mio stato, troverò la pace. Non mi lamento del fatto che dovrei essere più santo, più bello, più puro rispetto a quello che sono ora. Quando sono bianco, sono bianco, quando sono nero, sono nero, punto e basta. Questo atteggiamento non impedisce che continui a lavorare su di me per poter diventare uno strumento migliore; l’accettazione di sé non limita le aspirazioni, al contrario, le nutre. Perché ogni miglioramento partirà sempre da ciò che si è realmente” 

Per essere davvero noi stessi dobbiamo quindi imparare ad accettare tutto di noi, pregi e difetti, ciò che va bene e ciò che va male.Accettare è ritrovare pace, è guardarci allo specchio osservandoci, ma senza giudicarci. Anche l’accettazione contribuisce a costruire la nostra autentticità, la nostra felicità!

E’ vero che ci sono davvero cose che non possiamo cambiare; e a questo proposito mi viene in mente una bellissima preghiera, che vi riscrivo qui sotto:

Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscerne la differenza.

Ma per tutto quello che è in nostro potere cambiare, per poco o tanto che sia, accettiamo, non giudichiamo, e diamoci da fare, senza rassegnarci, ma con gentilezza, rispettando i nostri tempi, e ricordando che anche un piccolo gesto, una piccola azione a volte ha effetti di portata stupefacente!

Proviamo a pensare, stasera, ci sono situazioni in cui siamo riusciti ad accettare? E altre in cui è invece ancora difficile? Se volete, condividete nei commenti o scrivetemi una mail se volete approfondire.

Vi aspetto con gioia

Elena

 

Quanti minuti ci sono in un giorno (e quanti respiri?)

Ci sono 1440 minuti in un giorno (se non ho fatto male i conti, la matematica non è mai stata il mio forte…)

E in un giorno, quanto tempo e attenzione dedichi al tuo respiro?

Eppure è la nostra principale fonte di vita!  Pensaci: si può vivere qualche giorno senza mangiare, molto meno senza bere… ma solo pochissimi minuti senza respirare.

Da oggi, per una settimana, prova a dedicare 5 minuti al tuo respiro.

Siediti in una posizione comoda, rilassata, chiudi gli occhi se vuoi,  e inizia a portare la tua attenzione sul tuo respiro, osserva come inspiri e come espiri, soffermati sull’aria che entra e sull’aria che esce.

Senti che cosa succede nel tuo corpo, magari  all’inizio solo un leggero solletico al naso!

Rendi a poco a poco già profondo il respiro e concentrati sempre sulle sensazioni che provi.

Come ti senti?

Ascolta il tuo respiro, ascolta il tuo corpo.

Quando hai finito, sorriditi con gentilezza e guardati allo specchio: noti le differenze?

La faccia è già più rilassata, la pelle più luminosa, la mente più fresca… wow!

Da quanto tempo non respiravi così, pienamente, a fondo?

Introduci questa piccola pratica nella tua giornata, vedrai cosa succede! Quando ci ho provato, all’inizio del mio percorso di crescita personale, mi è sembrato un piccolo miracolo. Certo, non basta a risolvere tutti i problemi del mondo (magari!), ancora una volta ricordo che non esistono bacchette magiche, ma solo piccoli (grandi) passi sulla via del benessere.

5 minuti su 1440 possono fare la differenza! 😀 

E se noti dei cambiamenti, fammelo sapere o condividili nei commenti, mi raccomando 🙂

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Ti aspetto con gioia,

Elena